Lo diceva agli amici ascoltando Mozart, lo scriveva nelle lettere alla figlia: gli bastava solo immaginare il cielo sopra Firenze per sentirsi “mezzo ubriaco”.
Siamo nel 1921.
Albert Einstein ha quarantadue anni, le sue teorie hanno spinto la fisica verso nuove dimensioni, garantendogli una fama che probabilmente nemmeno si aspettava.
C’è il premio Nobel nel destino - la consegna avverrà l’anno successivo - e, nel frattempo, piovono inviti a tenere lezioni in tutta Europa.
Una delle conferenze è prevista a Bologna e se in altri casi Einstein valuta l’opportunità con scrupolo, stavolta non ci pensa un istante.
«Ho trascorso molti anni della mia adolescenza in Italia e ho sempre ricordato il vostro paese con nostalgia, pertanto accetto volentieri», è la risposta.
Partirà per l’Italia e ne approfitterà per incontrare la sorella minore, Maja, da poco trasferita a Firenze, prima a Fiesole e poi a Sesto. Einstein arriva in città in treno, il 18 ottobre, un martedì, insieme al figlio diciassettenne, Hans Albert.
Resterà quattro giorni, il tempo di lunghe passeggiate nelle strade del centro, poche serate a suonare il violino dopo cena, una cartolina di Palazzo Vecchio spedita all’estero, l’acquisto della riproduzione di un ritratto di Michelangelo da esporre accanto a quelli di Newton e Schopenhauer, su una parete dello studiolo nella casa di campagna di Caputh, vicino a Potsdam. Ecco: così inizia il legame tra Albert Einstein e Firenze.
Albert Einstein |
Un intreccio di passioni e sentimenti, fatalità e leggende che ancora oggi, esattamente cento anni dopo, resiste nella memoria dei racconti tramandati e nelle carte degli archivi.
Emblema della storia, un Blüthner a coda, costruito a Lipsia alla fine dell’Ottocento, regalo di Albert alla sorella Maja, dal 2016 custodito nella biblioteca dell’Osservatorio astrofisico di Arcetri. In quel pianoforte, lungo e nero, risiede l’ombra di intere generazioni segnate dalle ferite del Novecento.
Marco Ciardi, professore ordinario di storia della scienza al dipartimento di Lettere e filosofia, da luglio direttore del Museo Galileo di Firenze, e Antonella Gasperini, responsabile del Servizio biblioteche e musei dell’Istituto nazionale di Astrofisica, da lì sono partiti per il loro libro: “Il pianoforte di Einstein” (Hoepli), appunto.
Vite e storie in bilico tra Firenze, Europa e America, recita il sottotitolo del saggio, cristallizzando in poche parole una ricerca minuziosa condotta con lo scrupolo degli scienziati e il gusto del racconto degli storici.
«C’è chi dice che Einstein abbia passato più tempo a suonare il violino che a studiare fisica», sorride Ciardi, svelando il primo tassello del mosaico ricomposto intorno alla figura del premio Nobel.
Einstein amava la musica, così come l’intera famiglia della borghesia benestante ebraica tedesca, a cominciare dalla madre, una discreta pianista.
Anche Albert, pur preferendo il violino, di tanto in tanto si sedeva al piano.
Lo aiutava a riflettere, diceva. Come se una Sonata in Si bemolle fosse il miglior espediente possibile per risolvere passaggi delle sue teorie che parevano sfuggire via.
Del resto, «penso spesso in musica, vivo le mie fantasie in musica» è scritto in una sua intervista al Saturday Evening Post.
Mozart era il suo musicista prediletto, la tradizione e la precisione dell’universo anteposte alle avanguardie che in quegli anni tracciavano audaci orizzonti.
Una regolarità che, però, finisce per incrinarsi sullo stesso pianoforte, feticcio di un passato mai passato veramente e attraversato da tragedie sfiorate, vissute.
Perché se è vero che la musica tiene insieme la comunità di artisti della casa di Maja alla quale Einstein resterà fedele per sempre, sarà la grande Storia a scompaginare l’Arcadia tra gli ulivi della campagna fiorentina, lasciando una scia di dolore e rimpianto.
Non sono miti, ma incubi, quelli che invece avvolgono la seconda parte della storia del pianoforte e di tutto ciò che orbitava attorno.
Non gli piace quello a cui sta assistendo in Germania e nell’amata Italia, dove Mussolini obbliga i professori dell’università a giurare fedeltà al regime fascista.
Ma niente può, se non temere per sé e il suo mondo. Non gli resta che trasferirsi in America, a Princeton, dove sarà raggiunto dalla sorella Maja, costretta a lasciare l’Italia a causa delle leggi razziali.
Siamo agli inizi del febbraio 1939, un venerdì sera.
Maja scrive per l’ultima volta a un’amica annunciando per la domenica successiva una festa di addio.
Una cena che cancella ogni illusione del cenacolo di Samos travolto da prospettive incerte, cupe.
Gli artisti lasciano l’Italia per gli Stati Uniti e il pianoforte passa di mano, affidato da Maja a un artista tedesco che aveva scelto Firenze come rifugio: Hans Joachim Staude, musicista ma soprattutto pittore.
Ricorda nel libro, Angela Terzani Staude, la figlia di Hans Joachim: «Quel Blüthner è stato l’anima di casa nostra.
Al tramonto, nel grande salone che in suo onore chiamavamo la “sala della musica”, lo si vedeva controluce, davanti ai poderi di Marignolle».
Lì è rimasto fino a quando Francesco Palla, il direttore dell’Osservatorio dal 2005 al 2011, si adoperò per favorirne l’arrivo ad Arcetri.
Un cerchio finalmente chiuso. L’epilogo che, in un certo senso, contiene il viaggio di ogni protagonista dell’epoca.
Altre storie, altre coincidenze, altre relazioni tra Albert Einstein e la “sua” Firenze. Maja riuscirà a salvarsi, la famiglia del cugino Robert, no.
Negli anni della guerra si era ritirato nella campagna di Rignano sull’Arno, sperando di garantirsi una protezione altrove impossibile.
Il 3 agosto 1944 i tedeschi lo rintracciarono e uccisero la moglie e le due figlie di Robert, sopravvissuto ma suicida pochi mesi dopo, il giorno dell’anniversario delle nozze....