Il fenomeno hipster sta tramontando.
Williamsburg, il quartiere di Brooklyn, ospita su Bedford Avenue la più alta concentrazione di barbe lunghe, pantaloni stretti con risvolto, botteghe biologiche e digital divide (l’assenza di wi-fi nei bar è proposta come liberazione dalla schiavitù della connessione).
E adesso si è aperto il negozio J Crew, al 234 di Wythe Avenue, che si rivolge a una clientela molto più vicina alle signore ben vestite di Park Slope che agli aspiranti artisti che passano le serate a bere e discutere a Union Pool con i soldi di papà.
Commesse over 50, scaffali pieni di cachemire e manichini a forma di bambini che presentano gli stessi outfit degli adulti: tutto nel punto vendita del popolare marchio appare fuori contesto rispetto alle boutique di vestiti usati, cappelli a bombetta, pubblicazioni di poesia esotica e barattoli di marmellata usati come boccali di birra.
Sono lontani i tempi in cui i barbuti di
Brooklyn sfidavano nudi in bicicletta il conservatorismo degli ebrei
chassidici del quartiere e abbandonavano le galline in strada (il
pollaio in casa è uno dei pilastri dell’immaginario neo-hipster): lì,
come a East London o a Kreutzberg a Berlino, ormai c’è più glamour in
una coda di cavallo ben portata che nella borsa vintage marrone di
ecopelle contenente le bozze di un romanzo autobiografico.
Tiziano
Bonini, docente della Iulm di Milano e autore di «Hipster», un
intelligente saggio sull’argomento, ha effettuato una ricerca su Google
NGram Viewer per vedere la ricorrenza del termine nei testi di lingua
inglese.
La parola hipster - che nasce negli anni Quaranta con gli afroamericani amanti del bebop che vestono in maniera eccentrica per distinguersi dai musicisti swing e, dopo la guerra, etichetta i bianchi che “scimmiottano” i jazzisti di colore - torna agli inizi degli anni Novanta per definire i 20/30enni che ostentano uno stile di vita «indipendente» che si manifesta innanzitutto attraverso radicali scelte di consumo e di moda.
Il termine registra il suo picco di popolarità nel 2010 (si racconta che il responsabile della grammatica del New York Times quell’anno mandò una lettera di richiamo alla redazione che aveva utilizzato il termine più di 250 volte) per poi scivolare un po’ alla volta nel dimenticatoio lessicale.
Questi sono gli anni della «normalità», celebrata in varie forme: dalla moda - vedi alla voce normecore
- al cinema (i buoni sentimenti del film manifesto Boyhood) fino alla
cultura pop, dove l’emaciata e strana Miranda July è stata superata a
destra dalla simpatica neofemminista Lena Dunham.
L’ennesima conferma
del cambio di tendenza è arrivata
con l’ultima campagna del marchio di abbigliamento Gap - «Dress Normal» -
affidata alla regia della sofisticata Sofia Coppola che, in ogni
movimento di camera, ribadisce il nuovo imperativo che sembra rubato ai
fondamentalisti cattolici: la normalità è cool.
Certo, il nuovo corso ha già i suoi critici.
Certo, il nuovo corso ha già i suoi critici.
Sul NYT Vanessa Freedman l’ha definito «the new mediocre», la
nuova mediocrità, denunciando l’incapacità della cultura contemporanea
di inventare qualcosa di nuovo, dalla passerella ai romanzi e alla
politica.
Per la critica di moda della testata americana, tutto sarebbe ormai un mix di idee appartenenti al passato.
Per dirla con un cantante italiano degli anni Novanta, ogni novità sarebbe «solo una copia di mille riassunti».
Per la critica di moda della testata americana, tutto sarebbe ormai un mix di idee appartenenti al passato.
Per dirla con un cantante italiano degli anni Novanta, ogni novità sarebbe «solo una copia di mille riassunti».
Chi sono i New Normal e i Normcore? Sono quelli che si sono stancati di essere hipster e anche quelli che non lo sono stati ma voglio riconoscersi in un’etichetta, loro non indossano abiti e accessori iconici degli anni Ottanta, vestono normale, come tutti, non vuol dire che vestano male o a casaccio, ma che indossano quello che preferiscono, che scelgono consapevolmente cosa indossare inseguendo un proprio stile, non quello altrui.
Cosa indossano i new normal e chi sceglie lo stile normcore?
Scarpe New Balance, t-shirt, ma non solo Fruit Of The Loom, felpe, camicie a maniche corte, jeans e pantaloni chino, fanno invece a meno di cravatte e papillon e accessori superflui vari; i loro brand preferiti sono Gap, Superdry, Birkenstock e in generale attingono da un guardaroba anni Novanta.
Dunque, colmo dell'incoerenza, mentre da un lato si inneggia alla normalità, dall’altro si redige già un nuovo manifesto.
Chi sono le icone dei New Normal?
Probabilmente il caro Steve Jobs con il suo stile minimal e persistente, ma anche Mark Zuckerberg (che di recente ha dichiarato di possedere una sfilza di magliette tutte uguali perché non vuol perdere tempo decidendo cosa indossare ogni giorno fra tante cose diverse e Puffetta non gli dà torto), il conduttore di Man vs. Wild, Bear Grylls, addirittura Kate Middleton.
Non mancano i riferimenti italiani, c’è chi riconosce in Matteo Renzi un new normal e, udite udite, Papa Francesco, perché ha rinunciato a certi eccessi e professa la semplicità.
Si dice che questa si una reazione ad una sovrasaturazione di moda derivante dalla sempre più rapida evoluzione le tendenze della moda, si dice che i New Normal siano stanchi di essere uguali a tutti e vogliono diventare uno su sette milioni, i principi e le motivazioni sono lodevoli e condvisibili, il problema è che come sempre anche se si parla di libertà ed individualità, si finisce a parlare anche di marchi, di conformismo, di idoli, oggetti iconici e regole di base, di un manifesto che mira a rendere tutti, almeno tutti quelli che decidono di avere uno stile normcore, uguali se non a tutti almeno a qualcuno.
Insomma a me sembra non sia cambiato niente, almeno se non decidiamo di ignorare il manifesto collettivo e scegliamo di essere veramente “new normal”.
Ancora una volta, viene in mente un cantante italiano, Lucio Dalla, che in Disperato Erotico Stomp dichiarava quaranta anni fa «l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale». Vero?